Se vi sedete comodi vi voglio raccontare la storia di cocciula niedda, una bella vongola residente nello stagno di Santa Gilla. Proprio sotto il ponte della Scaffa che dal porto di Cagliari
conduce alla spiaggia di Giorgino. Cocciula Niedda è ricercata, amata, desiderata dai cagliaritani che si infilano gli stivali a coscia ed entrano nello stagno. Con una pala e un setaccio. Le
vongole stanno qualche decina di centimetri sotto la sabbia.
Sollevano la pala, gettano con uno scatto della spalla la fanghiglia nel setaccio, scuotono di lato, con la mano raccolgono le arselle, le vongole e le gettano in un secchio. Se il tempo li
accompagna.
Cocciula Niedda quel giorno non stava bene. Sarà che nello stagno le acque non sono più quelle di una volta, sarà stato il cambio improvviso del tempo. Quello scirocco che ha portato un temporale
e che ha rigirato le acque rivoltando il fondo. Nonostante l’estate. Cocciula Niedda è stata all’improvviso sollevata, insieme alla sabbia. E’ caduta con violenza. In una gabbia a cielo aperto. Senza
acqua. Giace nel fondale di un secchio verde di plastica.
Oddio! Non si respira. Mi manca l’acqua.
Zitta che nessuno ti sente.
Dove sei?
Sono qui.
Dove siamo?
I bipedi ci hanno preso. Ci mangeranno presto. L’unica speranza è uscire fuori da questo pozzo. Ma è troppo alto.
Cocciula Niedda piange disperata.
- Dai non fare così. Le dice una arsella bianca. E’ vero che la morte è brutta, ma prova a pensare che invece di essere mangiati da qualche pesce abbiamo la possibilità di fare un viaggio.
Vedere per la prima volta il mare di sopra.
Eppoi noi non siamo come i pesci, resistiamo per ore fuori dall’acqua. Immagina che bello poter vedere Cagliari!
Chissà dove ci porteranno, forse al mercato oppure in un ristorante lussuoso.
La apixedda verde della piaggio si fermò nello spiano di San Bartolomeo. Tra la piazza della chiesa e la caserma dei carabinieri. Vicino alla casupola abusiva rimessa in piedi da 'Gnazio e
Amore. Gnazio ha una quarantina di anni e una birra sempre in mano e quando la ragazza lo raggiunge verso l'ora di pranzo lui urla: Mooore, Moore!
Tutto questo durerà finchè gli operai del comune non arriveranno a murare l’entrata o a cambiare i lucchetti della serratura della casupola. Ma tutto sarà vano. Con l'arrivo della primavera Gnazio si
farà aiutare dall'amico Tonio, smureranno l’ingresso, cambieranno i lucchetti. Puliranno lo spiazzo, bruciando le sterpaglie, e pittureranno a nuovo la facciata. E’ un abusivismo povero,
part-time.
Giuseppe ha tirato fuori dalla sua tre ruote un cesto con un cartello che in realtà altro non è che una busta di carta per il pane. Di quelle marroni, robuste. La scritta è un tremolante corsivo,
si vede lo sforzo per quel seppur breve componimento. Vongolle frische 12 euri.
Sono fresche? - gli domando un uomo dal finestrino di un fuoristrada.
Dottò fresche fresche. Niene metto tre chiletti?
No sono costose. Fai un chilo.
Oh su dottori ma lei è tanalla. Pensi che io devo vendere dieci chili di cocciula per farmi visitare da lei!
Dottor Zinzula, è un bell’uomo sulla sessantina, alto e magro. Quella mattina dopo la spesa decise di pranzare a casa, da solo. Uno spaghettino allo scoglio, bianco con due scampi e le
vongole fresche di Giuseppe.
Di pomeriggio passò all’ospedale. Una rapida visita in corsia e dentro il suo studio fino alle sette di sera. Poi uscì. Era invitato a cena da una sua carissima collega di lavoro e non solo.
Lui amava spendere gran parte dei suoi soldi in ristorante, regali per le donne e viaggi, ed il resto lo sperperava.
Lei era bella quanto bastava e si era trassata con un trucco pesante da derrata di bordello. Così faceva da quando il marito l’aveva lasciata per una più giovane, una mora pepe nero che
aveva conosciuto on line, via internet, e con la quale non si era fermato all’approccio informatico ma aveva sviscerato la conoscenza con dei palpeggi per niente telematici. Da allora la
sconfortata era partita all’attacco per dimostrare più a se stessa che all’ex che avrebbe guadagnato il tempo perduto rimorchiando a trecento sessanta gradi tutto ciò che di appetibile la piazza
offrisse. Ripassò mezza azienda sanitaria locale numero 8. Meglio i professori, per scelta non andò mai al di sotto di un medico con specializzazione.
Un pescatore di spigole e cefali deve avere l’attrezzatura adatta. E con tale attrezzatura questa volta aveva deciso di pescare tra le braghe del vice primario. In questo modo si presentò quel giorno
di fine estate.
Con tacchi a spillo e un decolté che iniziava poco sopra l’incavo retrostante, una cavità affogata all’interno di due avvenenti promontori. Il tutto avvolto da una guaina semitrasparente, canapa grezza, che controluce come in una radiografia lasciava trasparire una lettera T nerastra, un filamento di mutande come una linea di confine tra due fronti. La facciata principale era arricchita da benestanti mammelle incapsulate su una taglia inferiore, cosicché tentavano di prendere aria dall’alto, saltellando ad ogni passo. Due meloni cantalupo raccolti ad agosto con gli spacchi laterali. Cotti dal sole. Sotto la carnosa pancetta arrotolata il passo carraio aspettava di essere rimosso e nel frattempo sudava leggermente, qualche gocciolina che si asciugava rapidamente al caldo secco del ventidue agosto. Quando lui la vide inchinarsi per raccogliere un tovagliolo caduto intenzionalmente, si toccò con pollice e indice riallineando il sanguinaccio, che scosso da un sussulto si stava lentamente trasformando da molle essenza burrosa a voluminosa lancia. La stessa differenza che c’è tra un formaggio fresco e un pecorino stagionato.
La cena era stata leggera a base di prosciutto d’oca con filetti di burro francese, arrosti in carrello e verdure miste in pinzimonio. Un tiramisù fatto in casa aveva sgrassato le avide
bocche mentre una bottiglia vuota di Vermentino rifletteva lo splendore di una luna piena nella baia di Torre delle Stelle. E chi è stato a Torre delle Stelle conosce la magia di quei riquadri.
Quelle case appollaiate in quelle due schiene ricurve ricoperte di pelo mediterraneo. La finestra semichiusa lasciava spazio ad una leggera brezza di maestrale che si adagiava tranquilla
in un soffice divano a tre posti tra le note serene di un vecchio vinile degli Eagles.
Hotel California lentamente saliva nelle tempie mentre lei sorrideva avvolta in pensieri ammiccanti e non solo. Un profumo di salmastro e di pino marino penetrava nelle narici. Lui si accese
una sigaretta consumandone mezza al primo tiro, mentre con la testa progettava un fine serata tra fresche lenzuola di lino da condividere in due e non solo.
La porta semichiusa della stanza da letto esportava una tenue luce rosso fegato che si ungeva zebrata nel pavimento listellato di ciliegio, esaurendosi in tre lingue che risalivano dal battiscopa
lungo la parete gialla paglierina. Sicuramente il letto era in attesa di essere disfatto. Ma la poesia stava per finire. E non che io non sia amante di Trilussa.
Perché fù proprio allora che come indiano d’america strisciando silenziosamente verso la tenda del viso pallido bussò due volte nel basso ventre provocando una leggera smorfia nel volto di
lui.
La rivincita di cocciula Niedda era appena iniziata.
Lasciò passare un paio di minuti, giusto per farlo rilassare, per fargli pensare che era solo un malessere passeggero come quelle nuvole grigiastre che da Mare Pintau muovevano verso le spiagge
di Villasimius passando per Kale Moru. Questa volta picchiò forte, dando un bel pizzicotto a centro pancia mentre il colore del viso divenne bianco, latte caprino appena munto.
Lei seduta nella poltrona con le lunghe gambe accavallate sorseggiava ignara una grappa Turriga mordendosi le labbra e non solo.
Lui resistette un paio di minuti poi, inevitabilmente, crollò raggiunto da un gancio sotto l’addome, un torcibudella.
L’amica coscialunga che aveva mezza gonna sollevata mostrando gran parte della sua bigiotteria gli indicò il bagno leccandosi un dito. Lui cretino fece un cenno con gli occhi, sollevando le
sopracciglia folte, e si sollevò per raggiungere il bagno fingendo di volersi lavare le mani.
Nella porcellana igienica Richard Ginori i suoi glutei restarono incollati per venti minuti. Rimase immobile piegato in due. Uscì con veemenza come una slavina che cala dal Brennero.
Venti minuti che sembrarono un eternità, in discesa libera come il Tomba di Madonna di Campiglio. Scendeva incollandosi alle pareti di maiolica pregiata, creando fantastiche e geometriche
incrostazioni. Come una cattedrale gotica scozzese o un Gaudì, con rifiniture damascate, riempì gli spazi di quella conca con arazzi zirgogolati. Quell’anfratto era colmo e ricordava vagamente
Frassassi e la sua grotta. Stalattiti, stalagmiti, giochi oscuri di luce e di arte.
Quella non fu una discesa silenziosa come la visita al confessionale alla vigilia della domenica di Pasqua.
Lo fece emettendo striduli rumori corporei e qualche tuono soffocato, aria e spruzzi, gas sprigionato con prolungati gorgheggi ventrali. Il fantasma di Cocciula Niedda lo aveva annientato. Nel
silenzio dopo la tempesta tentò di ricomporsi cercando con la mano le braghe attorcigliate alle caviglie. Riunì i pensieri per cercare di pulire quel disastro ecologico. Per quattro volte pigiò il
pulsante dello sciacquone armeggiando un fine spazzolone che in origine era color rosa. Niente da fare, quella robaccia, come lui la chiamò, non veniva via. C’erano piccoli nei sparsi qua e la che
resistevano. Strisciate di uno scuro colore indelebile resistente all’acqua e alla forza di quella spazzola armeggiata su e giù.
Aprì la finestra mentre la luna raggiava silenziosa sulla baia di Torre delle Stelle. Le nuvole erano sparite alle spalle del promontorio e dal cielo chiaro si poteva ammirare in tutto splendore il
Golfo degli Angeli.
Cercò di far circolare l’aria pesante usando le mani e braccia come pale di un mulino a vento. Consumò una bomboletta spray al pino marino e bestemmiò quando si accorse di avere anche le scarpe
leopardate.
Aprì la porta del bagno ricomponendo il suo assetto mentre Hotel California era finita da un pezzo. Con lui uscì dal bagno anche un tanfo per niente romantico. Un misto tra fumi di inceneritore e due
tonnellate di stallatico. La bionda fu colpita al naso da quel fetore, sbandò e svenne cadendo per terra. La gonna sollevata sopra l’anca mostrava una succinta nera mutanda e non solo.
Al Dottore non restò altro che scappare furtivamente, accompagnato dal quella fetida essenza, per affogare il suo dolore in un caldo e profumato bidè.
Era certo che prima o poi Giuseppe sarebbe passato nella sua corsia dell'ospedale. Al sesto piano del Brotzu.
Mauro Loi